Case Minime

CASE MINIME: SCOPRIAMO COME SI E’ ARRIVATI A COSTRUIRLE NEL 1934

I PIANI REGOLATORI IN EPOCA FASCISTA

L’insistenza sulla soluzione monocentrica dei piani regolatori di Milano, gli squarci per aprire grandi viali e le massicce demolizioni del centro storico, con la conseguente sistematica espulsione in periferia della popolazione meno abbiente dei quartieri centrali, dove più prepotentemente si era impiantata la speculazione edilizia, furono fenomeni già presenti, che andarono però emergendo e sviluppandosi in modo scoperto e massiccio in periodo fascista.
Ugualmente, nel campo dell’edilizia popolare, dall’esame dell’attività dell’Istituto Autonomo Case Popolari (I.A.C.P.), risulta come i grovigli amministrativi del periodo fascista, le remore, le deviazioni e la mancanza di una pianificazione organica e sufficiente alle necessità popolari, avessero determinato problemi insoluti.
Sui criteri da seguire nella redazione del piano regolatore generale di Milano, l’Amministrazione della città passò direttamente alla redazione dei piani particolari di singole zone, senza alcuna preoccupazione di subordinarli e armonizzarli ad un piano regolatore generale.

GLI ANNI DELLA CRISI ECONOMICA

I dati statistici del censimento del 1931 rivelavano che le condizioni degli alloggi operai avevano subito un notevole peggioramento rispetto al censimento del 1921. Risultava che, pur essendo in complesso notevolmente aumentata la popolazione della città, nella zona interna alla cerchia dei Navigli, la densità era scesa rispetto al 1911; ciò a causa delle demolizioni che avevano determinato uno spostamento della popolazione verso la periferia.
Risultava inoltre che, su una popolazione di un milione di abitanti, ben 260.000 erano coloro che abitavano in alloggi sovraffollati e, nonostante ciò, 35.578 locali risultavano sfitti o saltuariamente abitati. Questo numero sarebbe salito notevolmente con il dilagare della crisi economica. Questo fenomeno si ebbe fin dal 1927 in seguito alla grandissima produzione di alloggi medi e di lusso a prezzi inaccessibili. Con l’avanzare della crisi la domanda di quel tipo di alloggi aveva subito una notevole contrazione, mentre la maggiore richiesta era rivolta soprattutto ad appartamenti di piccole dimensioni. Ormai non più soltanto agli operai, ma anche al ceto medio, con l’impoverimento generale, diminuiva notevolmente le proprie capacità di acquisto.
Mentre i prezzi delle merci, in conseguenza dell’abbassamento dei redditi, segnavano una diminuzione, gli affitti delle abitazioni rimanevano sostenuti dato che i costruttori non volevano perdere il denaro investito due, tre anni prima. In fase avanzata della crisi, si costruivano ancora appartamenti di lusso con il denaro investito al momento del boom edilizio (1929), per cui veniva ad aumentare ulteriormente il numero degli appartamenti nuovi sfitti (circa 50 mila).
La situazione nel 1933 era gravissima; le demolizioni del centro avevano determinato l’aggravio del sovraffollamento e del subaffitto nelle zone periferiche, con grave disagio delle classi lavoratrici, danneggiate dalle decurtazioni dei salari, dal caro-fitti e dalla mancanza di alloggi disponibili sul mercato a un prezzo accessibile.
L’Istituto case popolari costruiva in media 2 mila locali all’anno, insufficienti ad alloggiare i soli sfrattati del Piano Regolatore. Nonostante la città non offrisse in quegli anni possibilità di lavoro e, anzi, il numero dei disoccupati fosse in continuo aumento, l’immigrazione non subiva soste. Non era ancora dalle terre del Sud che si affluiva a Milano alla ricerca di un lavoro, ma dalla bassa Lombardia, dall’Emilia e dal Veneto; più forte di qualsiasi legge anti-urbanesimo, di qualsiasi provvedimento poliziesco per impedire l’emigrazione interna. La città costituiva un forte richiamo, non solo per la possibilità di un lavoro, ma anche per il fatto che in essa si accentrava la pubblica assistenza.
L’unico Ente che a Milano si occupava allora di edilizia popolare, l’I.A.C.P. (dato che l’iniziativa privata ignorava totalmente questo genere di investimenti), anziché contribuire ad alleviare il disagio con l’aumento della produzione edilizia, dopo il poderoso sforzo degli anni precedenti, declinò la propria responsabilità nei confronti delle classi lavoratrici in un momento di grave disagio, dichiarando che si poneva mano a un programma limitato di costruzioni nell’intento anche di incitare l’iniziativa privata. Ma una responsabilità ancora più grave si può rilevare constatando come nell’esercizio 1933-34, «data la forte giacenza di cassa», l’I.A.C.P. decise di investire in titoli di stato la somma di 10 milioni. Con questa cifra sarebbe stato possibile costruire un intero quartiere di case operaie. Al pari degli altri proprietari privati, l’I.A.C.P. si limitò a fare qualche riduzione sugli affitti dei propri inquilini (d’altronde decretata per legge), rinunciando a qualsiasi intervento significativo nel campo dell’edilizia popolare.